Una delle principali critiche mosse all’obbligo di comunicazione introdotto dal d.lgs. n. 100/2020 riguarda la possibilità che il suo adempimento comporti una successiva incriminazione per l’intermediario. Se, infatti, l’attuazione del meccanismo transfrontaliero integra un reato (tributario o di diverso genere) e l’intermediario vi ha, a vario titolo, partecipato, la notifica imposta dalla legge potrebbe dare il via, direttamente o indirettamente, ad accertamenti amministrativi e, poi, di polizia giudiziaria: terminati i quali gli operanti procederanno a segnalare all’autorità giudiziaria la notizia di reato acquisita proprio grazie all’innesco proveniente dalla comunicazione dell’intermediario successivamente indagato.

Ci si chiede se tale eventualità sia compatibile con le norme sovranazionali e costituzionali in materia di autoincriminazione e, più precisamente, con l’art. 14 comma 3 lettera g) del Patto internazionale sui diritti civili e politici, l’art. 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), l’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (CDFUE), gli artt. 24, 111 e 117 comma 1 della Costituzione. In estrema sintesi, tali norme prevedono il diritto di essere giudicati mediante un giusto processo, di rimanere in silenzio e di non essere obbligati a deporre contro sé stessi.

Il primo tema è quello della possibile estensione del diritto al silenzio a tutte le dichiarazioni potenzialmente autoincriminanti, a prescindere dalla sede nella quale esse sono richieste. L’interrogativo è doveroso perché l’obbligo di notifica DAC6 non si svolge nell’ambito di un procedimento giudiziario penale o amministrativo, ma in un momento precedente a qualsiasi vicenda contenziosa. Fatto salvo il caso delle comunicazioni relative ai meccanismi transfrontalieri già avviati, infatti, l’obbligo di comunicazione precede la consumazione del reato fiscale in ipotesi integrato, che si realizza con la presentazione della dichiarazione infedele o fraudolenta (o, in taluni casi, con la sua omissione) e, quindi, in un momento successivo a quello della comunicazione.

Tutte le norme in materia di diritto al silenzio di rango primario, nazionali e sovranazionali, fanno espresso riferimento al procedimento penale. Il diritto al silenzio presuppone l’esistenza di un addebito di natura penale (da ultimo CEDU, sentenza 10 dicembre 2019, Radzevil c. Ucraina) o, grazie alla lettura estensiva fatta propria dalla giurisprudenza comunitaria, di un addebito amministrativo avente, secondo i c.d. “criteri Engel”, natura sostanzialmente punitiva (CEDU, sentenza 5 aprile 2012, Chambaz c. Svizzera).

Il tema ha formato oggetto di approfondimento da parte della Corte di Giustizia nella materia degli illeciti anticoncorrenziali (che peraltro riguardano enti collettivi, e non persone fisiche). Alla ricerca di un (forse irraggiungibile) punto di equilibrio, si è affermata la sussistenza di un obbligo di attiva collaborazione consistente nell’obbligo di rispondere ai quesiti di mero fatto posti dalla Commissione, alla quale è vietato “imporre all’impresa l’obbligo di fornire risposte attraverso le quali questa sarebbe indotta ad ammettere l’esistenza della trasgressione, che deve essere invece provata dalla Commissione” (così, da ultimo, Corte di Giustizia Europea, sentenza 29 giugno 2006, causa C-301/04P). Anche qui, l’applicazione (depotenziata) del diritto al silenzio è inquadrata in un procedimento contenzioso (analogamente Corte Costituzionale, ordinanza n. 117/2019, in materia di sanzioni CONSOB).

L’applicazione delle garanzie di fonte primaria contro il rischio di autoincriminazione sembra quindi incontrare, in materia DAC 6, due ostacoli: l’assenza di un procedimento volto all’accertamento dell’illecito (penale o amministrativo di natura punitiva) integrato dal meccanismo transfrontaliero e, ancora più profondamente, l’assenza dell’illecito rispetto al quale la comunicazione potrebbe valere quale autoincriminazione, stante il carattere preventivo della notifica “a regime” (art. 7 del decreto). Tale conclusione sembra l’unica compatibile con il diritto vivente: tanto le norme in esame quanto le decisioni sovranazionali e interne sono chiare nel limitare l’ambito applicativo del diritto al silenzio alle fasi contenziose, ossia ai procedimenti nella quali la pubblica autorità indaga sulla possibile commissione di un reato o di un illecito amministrativo avente natura punitiva.

Il diritto al silenzio “costituisce una norma internazionale generalmente riconosciuta, che si trova al centro della nozione di equo processo” e “mira a garantire che, in una causa penale, l’accusa fondi la propria argomentazione senza ricorrere ad elementi di prova ottenuti mediante costrizione o pressioni, in spregio alla volontà dell’imputato”; esso “comprende anche le informazioni su questioni di fatto che possano essere successivamente utilizzate a sostegno dell’accusa ed avere così un impatto sulla condanna o sulla sanzione inflitta a tale persona”, ma “non può giustificare qualsiasi omessa collaborazione con le autorità competenti” (Corte di Giustizia Europea, sentenza 2 febbraio 2021, causa C-481/19).

Resta aperto, e particolarmente complesso, il tema dell’obbligo di comunicazione una tantum (art. 8 del decreto), che andrà a scadere il 28 febbraio 2021 e riguarda i meccanismi transfrontalieri “la cui prima fase è stata avviata tra il 25 giugno 2018 e il 30 giugno 2020”. In questo caso è ben possibile che un reato sia già stato commesso e, quindi, la possibilità di un’autoincriminazione non è affatto virtuale: di qui la necessità di valutare attentamente il contenuto delle informazioni oggetto di comunicazione prescritte dall’art. 6 del decreto.