Il sottogenere ‘voce narrante under 14’ si arricchisce di tre romanzi che sfidano, ciascuno a suo modo e con esiti diversi, la difficoltà di nascondere l’anagrafe dell’autore. Dimentichiamo Romain Gary e “La vita davanti a sé” e godiamoci il buono dei libri di Douglas Stuart, Camille Bordas e Aglaja Veteranyi.

Andando in ordine di hype, partiamo da “Storia di Shuggie Bain”, opera prima vincitrice del Booker Prize 2020: 520 pagine neo-dickensiane, ambientate nella Glasgow deindustrializzata e thatcheriana degli anni ottanta, con miseria e alcolismo a fare da sfondo all’incondizionato amore di Shuggie per Agnes, madre bellissima ed autodistruttiva. Il carattere autobiografico della vicenda spiega il tono del racconto, che è quello del ricordo personale filtrato dalla nostalgia: lo sguardo quotidiano del bambino si fonde con la riflessione sottotraccia dell’adulto e vince il grigiore della città e della working class scozzese. Miglior recensione possibile del libro: la commovente fotografia in homepage del sito web di Douglas Stuart, riproposta qui in sedicesimo.

“Come muoversi in mezzo alla folla” è un libro più cerebrale, che ragiona sul valore dell’empatia e dell’altruismo (il che è un po’ paradossale, bisogna ammetterlo) ambientando l’azione dentro una famiglia francese, numericamente d’altri tempi, con cinque figli dotatissimi e sociopatici più un sesto, il dodicenne Isidore, per nulla geniale ma gentile d’animo e curioso dell’umanità. La citazione in esergo dice molto delle 300 pagine che seguono (“se parlare per un altro sembra un processo misterioso, forse è perché parlare a qualcuno non lo sembra abbastanza”) e l’approccio sociologico al tema non toglie freschezza allo sguardo del protagonista. Qualche riserva sulla credibilità della reazione familiare ad un lutto improvviso e, più in generale, sul tono lievemente algido della più parte del racconto, ma resta il merito di aver affrontato con fantasia ed efficacia il tema universale dell’isolamento individuale.

“Perché il bambino cuoce nella polenta” è invece l’autobiografia gipsy dell’infanzia girovaga della scrittrice romena, figlia di artisti del circo. Il racconto procede per aforismi ed associazioni di pensiero, più vicini alla poesia che alla forma tipica del romanzo. La fantasia travolge i margini, che diventano aleatori, e l’impaginazione, con alcune facciate abitate da una sola, breve frase, tutta in caratteri maiuscoli. Tema importante del libro la visione infantile dei nefasti effetti della dittatura di Ciausescu sul popolo romeno: i lampi di desolazione percepiti dalla piccola protagonista esprimono una dolente critica politica ed un desiderio di libertà e radici nazionali che la vita nomade del circo non può colmare.